09/06/2017

Ho conosciuto Keith Haring e non me ne sono accorto.

Tutto è iniziato con un piatto di spaghetti. Una sera di inizio febbraio 1983 ero sceso nel Lower East a casa di Washti, designer e artigiana caraibica che da 12 anni viveva clandestina nella grande mela, e avevo cucinato una grande quantità di spaghetti con un bel sugo di pelati e di mozzarelle fresche prese dal poco distante De Luca. Inizialmente eravamo una decina, c’eravamo da poco messi a tavola quando arrivò questo ragazzo con gli occhiali e si unì a noi, forse portò altre mozzarelle... Qualcuno mi disse che era un artista, un ‘graffitaro’ conosciuto e non ricordo altro, solo che ispirava simpatia e curiosità. Abitava al piano di sopra, in questo vecchio e modesto buiding che mi pare fosse Broome Street o forse Grand, ma sono certo che era all’angolo con la Bowery, perché dalla finestra della stanza dove ogni tanto dormivo, vedevo un negozio di liquori attorno a cui gravitava un’umanità sofferente. Nel 1983 il Lower East era un postaccio, in cui si stavano appunto insediando artisti e creativi a basso reddito.

Di quella sera ricordo bene la riflessione che mi accompagnò durante l’oretta di passeggiata e di 1Train che mi riportava verso la 122 Street/Columbia, dove vivevo. Eccola qui: a fine serata attorno al tavolo e sui divani molto usati della cucina/living eravamo in 17 persone, e non c’erano tre persone che venissero dallo stesso luogo; eravamo tutti dispersi, sperduti, lontani, ospiti della città verticale, soli.  C’era un tipo, forse texano o forse ispano americano, con una chitarra e volevamo cantare qualcosa tutti assieme, ma non c’era verso: alla fine trovammo la formula magica: i Beatles, al loro livello primario che anche noi broken english potessimo masticare, roba tipo Obladì Obladà, Yellow Submarine, forse ci spingemmo sino a Yesterday e forse chiudemmo con Imagine. Non si andava oltre, ma non era poca cosa. La lingua comune era una canzone.

Ero arrivato a New York il giorno della Befana, era la mia prima volta.

Ero partito dal Trullo, Tratturo Selvaggi 4, Ceglie Messapica, il 21 dicembre 1982.  Il 24, dopo una trasferta di due giorni da Punta Ala ai Cantieri di Ostia su una bella barca timonata da un famoso skipper, avevo rischiato di morire come un topo quando si era spento il motore appena entrati nella foce del Tevere in piena dopo giorni di pioggia…

Natale in famiglia a Finale Ligure, dove mi raggiunse la mia stella tedesca S.R. con cui andammo a fare Capodanno a Tolosa, dai miei amici. Siccome sapevamo che ci saremmo lasciati non eravamo allegri. Partenza da Bruxelles via Orleans.

Ero a NY su invito di M.H. gentile signora di 14 anni più agè que moi, che dopo il divorzio si invaghiva, giustamente, di uomini giovani e creativi. Conoscevo poche persone, erano tutte indaffarate e quando telefonavo loro mi rispondevano entusiaste, dicendo di richiamarle la settimana dopo per prendere un appuntamento… Io ero abituato che se volevi vedere qualcuno andavi a casa sua e gli suonavi il campanello.

Fuori si gelava, facevo lunghe camminate felici per scoprire la città e studiavo inlese per ore nella mia camera, ascoltando le radio e leggendo la free press. Dopo un mese la signora era disinvaghita ma eravamo diventati grandi amici. Così le liberai la stanza e venni ‘ricoverato’ dalla sua bellissima e gentile figlia ventenne (che spero vedere il mese prossimo dopo 24 anni!).

La figlia abitava con un’altra studentessa di circa 22 anni, C.R, la quale a sua volta era fidanzata con suo padre, ovvero l’ex marito della mia amica, un docente di quasi 50 anni che era anche suo insegnante. Così era NY: un groviglio di affetti, dove tutto era possibile e complicato!

L’anno dopo C.R. in Europa si sarebbe ‘fidanzata’ con me, ma questa è un’altra storia.

Sintesi non avevo più una stanza, dormivo sul divano, ma siccome loro di giorno non c’erano mai perché erano all’università o a fare lavoretti io dormivo beato. La casa era molto bella, su Riverside Drive, sempre all’altezza di Columbia e io la notte ero quasi sempre fuori, tra chiacchere e musica, con rientri sovente alle prime luci dell’alba.

Conoscevo tre o quattro persone, di cui una era un’artista americana abbastanza famosa all’epoca e l’altra una ragazza belga di buona famiglia, che affittava una stanza nella casa di Washti, in cui viveva anche una giovane artista californiana dai corti capelli biondi.

Alla fine quella casa era diventata il posto in cui mi trovavo meglio e dove sbarcavo due o tre sere a settimana, una sorta di manifesto Toscani/Benetton, con una donna caraibica nera, una bianca europea dai capelli rossastri e una intrigante bionda androgina. Con Keith ci siamo visti quattro o cinque volte, una volta abbiamo mangiato con calma giù da Washti e mi ricordo che parlavamo dei miti, degli sciamani, dei viaggi di ogni tipo. Un’altra volta siamo saliti su da lui, ma ci siamo rimasti poco. Capivo che era leggermente più benestante di noi perché poteva pagarsi una casa da solo, mentre nell’analogo appartamento sottostante erano in tre. Un’altra volta ci siamo incontrati sulle scale e abbiamo fatto un pezzo di strada assieme verso Canal Street, parlando di quanti spazi/muri brutti ci fossero da rallegrare!

Io però lì per lì non ho capito il suo valore, la sua estensione.

Frequentavo all’80% persone che si definivano artisti. Mi veniva da ridere: per me gli artisti erano Botticelli, Tiziano, Bruegel, Brancusi, De Chirico… regnava un’ecitazione malata che mi infastidiva. Pur apprezzando certi aspetti del suo lavoro non amavo e non amo Andy Wharol e non sono mai voluto andare alla Factory. Andavo al PS1 che allora era autonomo e abbastanza selvatico o a The Kitchen, che all’epoca era nei paraggi e dove ho sentito Brian Eno suonare in una stanza in cui eravamo venti persone per terra davanti a un suo televisore/video/time lapse in cui si vedevano 24 ore dello skyline di Manhattan, ripreso con una postazione fissa da Brooklyn, ristretto in meno di un’ora. thekitchen.org

Keith era un ragazzo gentile, un po’goffo, con uno sguardo tenero e vivace da animale che ti fa le feste e diversamente da molti altri artisti della scena new yorkese non se la tirava per niente ed era spesso solo. Aveva tre anni meno di me, mi piacevano tanto i suoi segni e gli animali/simboli che disegnava. Rivedevo in lui e nei suoi lavori energie che amavo, ma al tempo stesso mi sembrava un bambino. Avevo fatto l’università a Genova, con metà dei miei professori brigatisti o simpatizanti, avevo vissuto la scena dei fumettari bolognesi con gli amici morti di eroina, avevo lavorato in Olanda, a Parigi e a più riprese nelle campagne tra la Provenza e i Pirenei, ero stato mesi tra i Berberi in Marocco, avevo letto Young e Castaneda, Margaret Mead e Marcel Griaule, mi ero perso nel Sahara e nell’Africa Nera, d’estate facevo il bagnino a Varigotti, leggevo J.L.Borges  e chiedevo alla mia amica di recitarmi Rilke in lingua originale. A New York la cosa che più mi impressionò quell’anno fu la scoperta dell’arte dei Native American: vestiti, monili, oggetti quotidiani, tappeti, oggetti sacri.

Così, un po’ per presunzione un po’ per sfasamento della vita, non ho capito quanto grande fosse il genio di Keith. Lui voleva bene a Washti, Washti voleva bene a me, e di conseguenza io volevo bene a lui, ci aiutavamo l’un l’altro e questo ci bastava.

Quando son tornato a NY nel gennaio 1985, su invito della giovane C.R. di cui sopra, Keith non c’era, era partito per un danaroso lavoro in Europa e aveva lasciato le chiavi di casa a Washti, in modo che lei la custodisse e ritirirasse la posta. Nel frattempo era diventato parecchio famoso e gli arrivavano inviti esclusivi, con i quali Washti ed io ci siamo fatti una decina di serate molto divertenti, tra opening di gallerie d’arte e discoteche tipo Area en.wikipedia.org/wiki/Area_(nightclub) o Danceteria en.wikipedia.org/wiki/Danceteria.  Area era incredibile, perché ogni mese sceglievano un tema e creavano coreagrafie magnifiche. Nei due mesi che ci siamo andati ci sono toccati come tema la Giungla (e devo dire che Washti ci faceva proprio una bella figura!) e Houdinì, ovvero un mondo acquatico in cui persone incatenate stavano in fondo a piscine, mentre tu ballavi sotto enormi acquari di vetro in cui nuotavano squali veri!

Keith ci aveva detto di approfittarne per bene e siccome eravamo poveri andavamo o agli opening dove c’era buon cibo o a ballare. Lei era compatta, esplosiva, indossava vestiti aderenti come una seconda pelle nera, io avevo un cappello Stetson black e un completo di lana scuro Principe di Galles, con con micro fili rossi, regalatomi da Zio Nino a Martina Franca, che se lo era fatto fare a Roma nel 1963 dal sarto di Marcello Mastroianni. Arrivavamo alle code con in tasca l’invito patinato, io dicevo che ero un italian artist mandato da Keith Haring e le porte si spalancavano con tanto di inchini!

Quanto abbiamo ballato io e lei! Ore e ore. Erano le notti di Lou Reed, Patty Smith, della New Wave americana e della break dance/music che allora chiamavano Rock&Roll Nigger Disco. Dell’AIDS sino a quando ci sono rimasto io, aprile 1985, non si sapeva ancora niente, ma c’era tensione nell’aria e molta più prudenza nell’andare a letto con qualcuno rispetto a due anni prima. Tutti parlavano e temevano una sorta di herpex genitale. L’anno dopo sarebbe venuto fuori e da lì a poco anche Keith se lo sarebbe ritrovato dentro.

Washti quell’anno stava mettendo su un negozietto di una stanza e io l’aiutavo a dipingere le pareti. Wasthi aveva dieci anni più di me e ora come allora sembra dieci anni più giovane!

Sono rimasto a New York due inverni di 100 giorni ognuno e non ho fatto neppure una foto. Bei Tempi!

Però la mia amica milanese A.T. che mi venne a trovare una foto la scattò, perché si accorse che la persona protetta da un eskimo, che accanto a me guardava con l’acquolina in bocca la vetrina di un minuscolo negozio di formaggi e delicatessen europee nell’upper est, era Woody Allen.

Quindi esiste una foto, ma non so che fine abbia fatto.

Quando ho visto la stupenda mostra a Palazzo Reale ho finalmente capito la forza e la grande visione di questo piccolo uomo gentile.

 

Ciao Keith, sono un ritardato, ma ci siamo voluti un poco di bene lo stesso!

 

 

  • Virginio Briatore
  • Virginio Briatore

31/03/2017

Blog d'autore

Grazie a Laura Traldi che con poche parole ha capito il senso di questo piccolo racconto di vita e di oggetti.

designlarge-d.blogautore.repubblica.it/2017/03/31/fuori-salone-2017-eventi-milan-design-week-mdw17-ventura-lambrate-2/?refresh_ce

 

30/03/2017

Gli Oggetti Raccontano

All'abbondanza quasi sovrumana degli eventi disponibili nella Milan Design Week non sentivo la necessità di aggiungere nulla.

Ma gli amici Matteo Ragni e Nicoletta Murialdo mi hanno invitato a partecipare al loro progetto  "The Essential Taste of Design". Ne sono onorato ed ho detto Sì.

Matteo mi aveva chiesto di selezionare una ventina di oggetti 'supernormal' o di design, relativi alla cucina e alla tavola. Per non disperdermi in varie telefonate/mail ad aziende e designer ho accettato, proponendo di esporre 21 oggetti che quotidianamente uso per cucinare e mangiare.

Metà sono sconosciuti e no-name, metà di vari designer, quasi tutti amici.

Nella micro esposizione, che confido essere la più piccola e low budget del mega saloon, accanto ad oggetti di viaggio trovano posto opere di Enrico Azzimonti, Miriam Mirri, Alessandro Mendini, Setsu e Shinobu Ito, Giulio Iacchetti, Marco Merendi, Philippe Starck, Luigi Colani, Claudio Caramel, Francesco Fusillo, Bruno Gecchelin.

I disegni sono di Gianluca Biscalchin ( mancano un paio di oggetti e va bene così!). Per la grafica e l'allestimento sono grato a Francesco Fusillo.

  • Virginio Briatore

15/01/2017

Ciao Fernando

Caro Ferna, forse te lo avevo detto o forse no, ma di fatto non appena fossi riuscito a 'scendere' in Salento la prima persona che desideravo vedere saresti stato tu!

Attraverso FB ci incrociavamo d tempo e vedevo che attorno a te tutto sembrava andare per il verso giusto. Avrei avuto voglia di vedere la tua casa e stare un po' con la tua famiglia... dai tuoi post e dalle nostre poche telefonate veniva fuori un alone nel quale affetti, lavori, arte, relazioni, eventi, mare, pietre, foglie emanavano una bella luce.

Invece ti scrivo su questo muro di pietra digitale, in questo che è ormai diventato il più grande cimitero della storia umana, dove ogni giorno ognuno di noi sparisce e giace nel cyberspazio, finché l'elettricità ce lo consentirà.

Di fatto quando nell'ottobre 1986 sono sbarcato a Lecce dalla Liguria, la prima notte mi sono ritrovato a dormire a casa tua. Sembra un caso ma non lo è. Già allora, pur condividendo con altri la masseria di Monteroni, avevi il senso dell'ospitalità e una curiosità alta e semplice al tempo stesso. Eravamo cinque e o sei ed ho stampata in mente quella prima cena, anche perché all'altro lato della tavola in diagonale c'era Anna Durini, la sorella di colei che sarebbe poi diventata la tua amatissima moglie.

Il viaggio su questa Terra di Anna è stato davvero breve e diversamente da te non ha avuto il tempo di lasciare figli, opere, 'tracce', che tu invece ci hai donato e che ci accompagneranno per il tempo che ci resta da vivere e oltre ancora.

Nel mio cuore ha però lasciato un segno indelebile, l'enigma di un sentimento indicibile, scaturito nei vari momenti che abbiamo condiviso, spesso di domenica o nelle sere d'inverno quanto la solitudine morde e noi la mettevamo a tacere parlando, mangiando, bevendo, ridendo per ore e ore.

Ti ringrazio anche per aver tirato fuori in questi anni e aver postato alcune immagini del mitico Studio Atlantide e di Lecce ForYou. Di quei tre anni e passa che ho lavorato con te mi rimangono ricordi sani e piacevoli: la tua efficienza, la tua velocità esecutiva, la precisione. Allora non eri ancora maturato come artista, vivevi impaginando il Quotidiano, Lecce For You e i vari strumenti di comunicazione che a fatica proponevamo a svariati clienti. Ma proprio allora hai iniziato a scolpire, a scavare le pietre, a dare forme naturali e cosmiche alla materia inerte. Ogni volta che venivo alla tua masseria ero sempre affascinato dal tuo fare 'con le mani': che si trattasse di imbiancare un muro, restaurare un comò, sistemare tronchi di legno in giro per la casa e nella corte, improvvisare un lampada dalla bella luce, raccogliere le arance in una ciotola garbata! Avevi il dono dell'estetica spontanea, antica, potente, selvatica, senza tante menate ed elucubrazioni.

Da te, dalle 'cazziatine' che mi  facevi ridendo per smussare le mie insofferenze e prenderti gioco della mia visione sfalsata, ho anche imparato ad accettare la 'cultura' salentina con gli aspetti piacevoli e con i lati oscuri che a x noi  'polentoni' a volte sono ardui da vivere.

Infine sono sempre rimasto incantato dalla tua bellezza vera, spoglia: un paio di jeans e un giubbotto di pelle e via... ogni giorno eri bello, anno dopo anno e il tempo sembrava non passare per te. Lo stesso dicasi per tua moglie Ornella, bella come una dea della Grecia classica.

Caro Fernando Perrone, fai buon viaggio, ci rivedremo nell'infinito, oltre questo libro della facce. Ciao

 

  • Virginio Briatore
  • Virginio Briatore